domenica 2 febbraio 2020

Recensione di "Tu", di Mehmed Uzun (da Verspertilla, sett.-ott. 2019)


La recente pubblicazione di Tu, che nel 1984 segnò l’esordio narrativo dello scrittore Mehmed Uzun, corrisponde alla prima traduzione diretta di un romanzo dal kurdo kurmanji all’italiano. Al di là di questo primato, l’operazione – che ha visto coinvolti l’ISMEO, il MIUR e l’Istituto Kurdo – è meritoria per l’importanza letteraria, storica e culturale di quest’opera. Certamente tra i più importanti autori kurdi, Uzun è uno scrittore di elevata qualità e di grande sensibilità, e per Tu sceglie come protagonista un personaggio senza nome, ad un tempo suo autoritratto e sintesi di una o due generazioni di suoi connazionali.
Una narrazione che a capitoli alterni si sviluppa in prima e in seconda persona singolare precipita il lettore in un’esperienza di prigionia e derisioni, di ricordi e speranze. Le diverse variazioni sul tema di «quando vennero a prenderti» sembrano preannunciare un destino tragico, una sofferenza ineluttabile, ma negli sviluppi del racconto si fanno vieppiù presagio della capacità di resistenza di un individuo e della sua gente.
Una molteplicità di fenomeni e percezioni collettive e individuali si dispiegano e si confondono in un testo che ha il grande pregio di riuscire ad essere molto lineare nel suo insieme, ma che paga qui una resa in italiano che doveva essere curata con più attenzione. L’autore è in grado di impiegare diversi strumenti e strategie narrativi e meta-narrativi, così da trasmettere la complessità di una dimensione che da personale si fa continuamente collettiva, e viceversa. Si presentifica vividamente, in questo modo, la tragica continuità che nel Kurdistan turco può emergere tra l’idillio di scenari naturali avvolgenti e rassicuranti e la realtà distopica dei rastrellamenti, delle reclusioni di massa e delle torture. La preziosa introduzione di Francesco Marilungo e l’interessante commento dello stesso Uzun posto a chiusura del volume evidenziano molto bene la rete di implicazioni e riferimenti che tiene insieme un testo che è concettualmente molto più compatto di quanto possa far immaginare una lettura superficiale. Il trittico costituito da Madre Natura, Carcere e Città di Diyarbakır richiama una sequenza temporale (passato-presente-futuro) che corrisponde, di fatto, ad una coabitazione, nell’animo del popolo kurdo, di ricordi, di speranze e del riconoscimento di sé e del simile a sé nella condivisione delle sofferenze. Appare infatti significativo che proprio la comune esperienza di internamento contribuisca ad una più chiara definizione e presa di consapevolezza dell’identità culturale kurda, un’identità che non è scontata ed esige cooperazione, passione e impegno, prima di tutto in campo linguistico e letterario. Quando lo rende possibile, la prigionia è occasione per approfondire con il fiore degli intellettuali kurdi (p. 124, «Guarda, guardati intorno. Tutti questi prigionieri sono persone famose [...] Nella nostra patria non ci sono personalità più grandi e più importanti di loro») una serie di temi culturali vecchi e nuovi, come il tipo di forma scritta da dare alla lingua madre al fine di portarla ad una vera condivisione. La consapevolezza di essere parte di un popolo che finché si dimostra vivo in quanto culturalmente vivace non potrà mai essere piegato dalla repressione mantiene accesa e insistente proprio l’esigenza della condivisione e del riconoscimento, al punto che anche in regime di isolamento il protagonista ridesta la memoria collettiva rivolgendosi ad un piccolo scarabeo, creatura che tipicamente introduce racconti e filastrocche popolari (p. 31, «Amico mio, insetto. Chi l’avrebbe mai detto che che ti avrei incontrato e ospitato in questo posto stretto e buio?»; p. 79, «Lo sai, fra tutte le storie della nonna, qual era la mia preferita? […] Se sei uno scarabeo kurdo dovresti indovinare.»). La descrizione della condizione dell’essere umano e delle sue crude esperienze di vita, i riferimenti storici e a personaggi esistiti, interagenti con un io-tu che invece è, per quanto molto evocato e presente, giustamente sfuggente, ricordano lo stile di alcuni autori ispanoamericani (vengono in mente, ad esempio, Roberto Bolaño e Juan Rulfo), ma anche quello di grandi nomi del mondo arabo orientale (come Sa‘adallah Wannus o Ghassan Kanafani). Tu resta un romanzo e un’operazione editoriale molto importante, ma se il lettore non fatica troppo ad intravedere la raffinatezza di un lavoro che nella lingua originale sa probabilmente essere tanto agile nel ritmo quanto denso nei contenuti, egli con pari facilità può inciampare nelle frequenti asperità di una traduzione italiana che avrebbe dovuto essere più meditata (per non parlare dei tanti refusi).

Mehmed Uzun, Tu, Roma: Scienze e Lettere 2019
A cura di Francesco Marilungo
Pubblicato con un contributo del MIUR (progetto “Studi e ricerche sulle culture dell’Asia e dell’Africa: tradizione e continuità, rivitalizzazione e divulgazione”)
Mehmed Uzun, Tu, Il Novissimo Ramusio 17, Roma: Scienze e Lettere 2019, pag. 224, € 20, ISBN 9788866871590
http://www.ismeo.eu/tu/
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