La
recente pubblicazione di Tu,
che nel 1984 segnò l’esordio narrativo dello scrittore Mehmed
Uzun, corrisponde alla prima traduzione diretta di un romanzo dal
kurdo kurmanji all’italiano. Al di là di questo primato,
l’operazione – che ha visto coinvolti l’ISMEO, il MIUR e
l’Istituto Kurdo – è meritoria per l’importanza letteraria,
storica e culturale di quest’opera. Certamente tra i più
importanti autori kurdi, Uzun è uno scrittore di elevata qualità e
di grande sensibilità, e per Tu
sceglie come protagonista un personaggio senza nome, ad un tempo suo
autoritratto e sintesi di una o due generazioni di suoi connazionali.
Una
narrazione che a capitoli alterni si sviluppa in prima e in seconda
persona singolare precipita il lettore in un’esperienza di
prigionia e derisioni, di ricordi e speranze. Le diverse variazioni
sul tema di «quando vennero a prenderti» sembrano preannunciare un
destino tragico, una sofferenza ineluttabile, ma negli sviluppi del
racconto si fanno vieppiù presagio della capacità di resistenza di
un individuo e della sua gente.
Una
molteplicità di fenomeni e percezioni collettive e individuali si
dispiegano e si confondono in un testo che ha il grande pregio di
riuscire ad essere molto lineare nel suo insieme, ma che paga qui una
resa in italiano che doveva essere curata con più attenzione.
L’autore è in grado di impiegare diversi strumenti e strategie
narrativi e meta-narrativi, così da trasmettere la complessità di
una dimensione che da personale si fa continuamente collettiva, e
viceversa. Si presentifica vividamente, in questo modo, la tragica
continuità che nel Kurdistan turco può emergere tra l’idillio di
scenari naturali avvolgenti e rassicuranti e la realtà distopica dei
rastrellamenti, delle reclusioni di massa e delle torture. La
preziosa introduzione di Francesco Marilungo e l’interessante
commento dello stesso Uzun posto a chiusura del volume evidenziano
molto bene la rete di implicazioni e riferimenti che tiene insieme un
testo che è concettualmente molto più compatto di quanto possa far
immaginare una lettura superficiale. Il trittico costituito da Madre
Natura, Carcere e Città di Diyarbakır richiama una sequenza
temporale (passato-presente-futuro) che corrisponde, di fatto, ad una
coabitazione, nell’animo del popolo kurdo, di ricordi, di speranze
e del riconoscimento di sé e del simile a sé nella condivisione
delle sofferenze. Appare infatti significativo che proprio la comune
esperienza di internamento contribuisca ad una più chiara
definizione e presa di consapevolezza dell’identità culturale
kurda, un’identità che non è scontata ed esige cooperazione,
passione e impegno, prima di tutto in campo linguistico e letterario.
Quando lo rende possibile, la prigionia è occasione per approfondire
con il fiore degli intellettuali kurdi (p. 124, «Guarda, guardati
intorno. Tutti questi prigionieri sono persone famose [...] Nella
nostra patria non ci sono personalità più grandi e più importanti
di loro») una serie di temi culturali vecchi e nuovi, come il tipo
di forma scritta da dare alla lingua madre al fine di portarla ad una
vera condivisione. La consapevolezza di essere parte di un popolo che
finché si dimostra vivo in quanto culturalmente vivace non potrà
mai essere piegato dalla repressione mantiene accesa e insistente
proprio l’esigenza della condivisione e del riconoscimento, al
punto che anche in regime di isolamento il protagonista ridesta la
memoria collettiva rivolgendosi ad un piccolo scarabeo, creatura che
tipicamente introduce racconti e filastrocche popolari (p. 31, «Amico
mio, insetto. Chi l’avrebbe mai detto che che ti avrei incontrato e
ospitato in questo posto stretto e buio?»; p. 79, «Lo sai, fra
tutte le storie della nonna, qual era la mia preferita? […] Se sei
uno scarabeo kurdo dovresti indovinare.»). La descrizione della
condizione dell’essere umano e delle sue crude esperienze di vita,
i riferimenti storici e a personaggi esistiti, interagenti con un
io-tu che invece è, per quanto molto evocato e presente, giustamente
sfuggente, ricordano lo stile di alcuni autori ispanoamericani
(vengono in mente, ad esempio, Roberto Bolaño e Juan Rulfo), ma
anche quello di grandi nomi del mondo arabo orientale (come
Sa‘adallah Wannus o Ghassan Kanafani). Tu
resta un romanzo e un’operazione editoriale molto importante, ma se
il
lettore non fatica troppo ad intravedere la raffinatezza di un lavoro
che nella lingua originale sa probabilmente essere tanto agile nel
ritmo quanto denso nei contenuti, egli con pari facilità può
inciampare nelle frequenti asperità di una traduzione italiana che
avrebbe dovuto essere più meditata (per non parlare dei tanti
refusi).
Mehmed Uzun, Tu, Roma: Scienze
e Lettere 2019
A cura di Francesco Marilungo
Pubblicato con un contributo
del MIUR (progetto “Studi e ricerche sulle culture dell’Asia e
dell’Africa: tradizione e continuità, rivitalizzazione e
divulgazione”)
Mehmed
Uzun, Tu,
Il Novissimo Ramusio 17, Roma: Scienze e Lettere 2019, pag. 224, €
20, ISBN 9788866871590
http://www.ismeo.eu/tu/